da La Città del 16 Gennaio (Carmine Landi)
Due dita lacerate dalla barra d’acciaio d’una motosega. La bellezza di duecentodue chilometri in due giorni, macinati invano, a caccia d’un introvabile camice bianco. E le porte sbattute in faccia. E l’attesa eterna sul ciglio dell’asfalto, in barba al regime di quarantena, ché il “peccato mortale” di Giovanni Beatrice, 30 anni, protagonista di un’incredibile odissea nell’era della pandemia, è quello d’aver contratto il Coronavirus. «Ho il Covid, nessuno mi visita», racconta amaramente il giovane di Monticelli, frazione di Olevano sul Tusciano alle porte dei Picentini. Mostra le vistose ferite all’indice e al medio della mano destra. «Fa male», sussurra. Lo aveva detto pure ai sanitari del “Santa Maria della Speranza”, l’ospedale di Battipaglia, prima di ritrovarsi, suo malgrado, abbandonato, di giovedì pomeriggio, nel piazzale del presidio della Piana, popolato da ignari frequentatori che, incrociando distrattamente lo sguardo di quel giovane in disparte, neppure immaginano di ritrovarsi di fronte una persona contagiata, ché il Covid fa paura tra quattro mura d’una struttura sanitaria, mica nel cortile. Era il 26 dicembre, giorno d’un kafkiano Santo Stefano: il mondo scaldava nel forno gli avanzi d’un surreale banchetto natalizio, mentre Giovanni, sposato, con un figlioletto, apprendeva mestamente d’aver contratto il Coronavirus, insieme al parentado.
Alla vigilia dell’Epifania l’esito del secondo tampone: ancora positivo. L’unico sollievo? Tutti asintomatici. In quarantena, Giovanni si dedica ai lavori domestici. È quel che fa pure nel primo pomeriggio del 13 gennaio, di mercoledì. «Ero in giardino, stavo potando la siepe con la motosega. Mi sono tagliato due dita». Uno squarcio profondo, soprattutto al medio. Coi jeans sporchi di sangue, Giovanni s’infila in auto. «Mia sorella, che s’è negativizzata da qualche giorno, entra in auto con me». La meta è l’ospedale più vicino, il “Santa Maria della Speranza” di Battipaglia. Giovanni, però, ha il Covid: «Per strada abbiamo allertato il 118, chiedendo il da farsi in questi casi, e m’hanno ordinato di restare in auto. Mia sorella si sarebbe rivolta al Pronto Soccorso, spiegando al personale l’accaduto e riferendo della mia positività». I Beatrice s’attengono scrupolosamente alle indicazioni della voce metallica al di là dello smartphone. Alle 15,18 il triage. «M’hanno collocato in una stanza per l’isolamento. Un infermiere, una bravissima persona, m’ha messo dei punti, specificando ch’erano provvisori, perché dovevo esser visitato dall’ortopedico ». Dopo la sutura, però, non arriva nessuno. Nonostante, nell’elenco delle prestazioni, sul verbale redatto in Pronto Soccorso, figuri una “visita ortopedica”. «Ve lo dico io cos’è stata la visita: il medico l’ha fatta tramite una foto della mia mano che l’infermiere gli ha inviato tramite WhatsApp». Tant’è che, nel “medichese” degli atti, si legge d’una “consulenza ortopedica eseguita su referto radiografico praticato in stanza Covid su paziente positivo”. Con tanto d’indicibile giustificazione: “Non essendo in possesso di dispositivi di protezione individuale”. In ospedale.
Nella trincea della guerra al Covid. «Non m’ha visitato nessuno». Il “televerdetto” è rassicurante, ma telegraficamente si precisa che “si richiede trasferimento presso struttura dedicata Covid per il trattamento del caso”. A cinque ore dall’arrivo, Giovanni è ancora “parcheggiato” sul lettino. Dal Pronto Soccorso, alle 19, contattano il 118, invocando informazioni sulla struttura Covid ad hoc , per mandarci Giovanni. Invano. Alle 20 e 5, dopo sei ore in ospedale, le dimissioni. Con tanto di foglietto di raccomandazioni: “Continui antibioticoterapia - si legge - ed effettui visita presso l’ospedale “San Giovanni Bosco” di Napoli”. Da Olevano a Napoli. “Con mezzi propri”, ovviamente. Nonostante il Covid. Di giovedì mattina, con le dita doloranti, il giovane positivo torna in auto in compagnia della sorella. E parte alla volta di Napoli. In autostrada col virus: 86 chilometri all’andata, 86 chilometri al ritorno. Al termine del viaggio della “Speranza” - non l’ospedale - la Divina Provvidenza, tanto cara al santo patrono dei giovani che dà il nome al presidio partenopeo, non assiste Giovanni. «Non m’hanno fatto entrare, m’hanno detto che lì ci sono solo le degenze per i pazienti Covid. M’hanno detto che dovevo essere trasportato dal 118». Altro che raccomandazioni: vatti a fidare d’un buon consiglio ospedaliero. Rassegnato e desolato, Giovanni fa dietrofront. Torna a Olevano, ma la mano fa male. E il giovane chiede soltanto una visita. Nulla di più. «Alle 14 e trenta chiamo il 118. Spiego l’accaduto e mandano un’ambulanza». Alle 16 d’un lungo giovedì, scortato dagli operatori sanitari, Giovanni torna a Battipaglia: rivede le gialle pareti del Pronto Soccorso e d’istinto porta alla fronte la mano sinistra, quella “buona”. «Resto all’interno dell’autoambulanza, ma all'accettazione mi rifiutano. Dicono che non posso entrare, che devo andare a Salerno, al “Ruggi”».
E il mezzo di primo soccorso riprende la marcia: «Usciamo dal Pronto Soccorso. Poi, però, ci ritorniamo». Un incubo. «Gli operatori aprono il portellone e mi dicono: “Ci dispiace, ma ci ha chiamato il 118. Il tuo viaggio deve finire qui”». Alle 17, Giovanni scende dall’ambulanza. Resta a piedi, nel piazzale dell’ospedale. Nonostante il Covid. «Esco fuori, e mi tengo alla larga da tutti. Chiamo il 112, m’invitano a restare in disparte e mi dicono che devo denunciare. Telefono nuovamente al 118, mi dicono che non hanno più tempo per me». Rimane lì, Giovanni, in attesa che qualcuno venga a prenderlo. Arriva la mamma (pure lei s’è negativizzata), il 118 che non lascerebbe mai a piedi un figlio. «Denuncerà tutti. Ho chiesto copia della scheda di soccorso, per sapere perché m’hanno lasciato lì», tuona Giovanni, ancora in attesa d’una visita. «Mio zio - racconta - fa il medico a Cosenza, e m’ha detto “vieni qui, che ti controllo io”, ma non può essere così. Non dev’essere così. Siamo positivi al Covid, e chi non muore per il virus rischia di perdere la vita perché i medici ci abbandonano, perché il Paese ci ha abbandonati». E guai a chiedere una mano. O a tagliarsela.
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