di Erika Noschese
Da un ospedale di Cambridge al Ruggi d’Aragona per combattere, in prima linea, l’emergenza Coronavirus. Giulia Galano è un’infermiera, richiamata in servizio per combattere in trincea contro un virus di cui, oggi, si sa ancora troppo poco. «Ci sono tanti giovani nella nostra terapia intensiva, quasi tutti quarantenni», dice. Segno – forse – che il Covid19 non guarda in faccia nessuno.
Com’è il lavoro per un medico ai tempi del coronavirus in un ospedale come il "Ruggi"?
«Io sono stata assunta proprio per quest’emergenza quindi posso vedere com’è adesso e non posso fare paragoni con il passato. La situazione è ormai sfuggita di mano, anche psicologicamente. Chi si trovava prima in ospedale mi ha più volte detto che in passato era diverso, le persone sono nervose. Non c’è più quell’armomia che poteva crearsi prima con i colleghi. Tutti noi abbiamo una famiglaia, io stessa ho colleghi che non vedono i figli da quando è cominciata quest’emergenza. Anche dal punto di vista dei mezzi abbiamo paura che in casa quest’emergenza si aggravi. Io lavoro in Medicina donne, reparto che teoricamente non dovrebbe avere pazienti Covid. Noi ne abbiamo avuti due sospetti, quindi non c’è una sicurezza che tuteli noi che non lavoriamo in reparti di terapia intensiva o rianimazione. Noi abbiamo paura, la coordinatrice del reparto fa di tutto per farci avere dei materiali, ma non ci arrivano camici nuovi o mascherine nuove. Abbiamo provato a sterilizzarle, abbiamo dovuto poi smettere».
Cosa significa avere a che fare con un paziente positivo ad un virus completamente sconosciuto, cosa si legge nei loro occhi?
«Cerchiamo di non farglielo pesare, ma quando capiscono che cerchiamo di isolarli si sentono persi. Solitamente con i pazienti perdiamo molto tempo, facciamo anche una chiacchiera. Con i pazienti covid invece, anche per il fatto di non avere i dispositivi giusti, cerchiamo comunque di mantenere le distanze. Ho colleghe al Nord Italia con le quali ci sentiamo quotidianamente, e mi raccontano che lì la situazione è letteralmente degenerata. Negli ospedali ci sono reparti Covid e non ci sono i materiali. Al Ruggi la situazione comunque è maggior- mente contenuta. Purtroppo sappiamo che la loro malattia può peggiorare improvvisamente. E poi a sorprenderci è stato il fatto che i pazienti più critici sono tutti giovani, al massimo intorno ai quarant’anni».
Prima hai parlato di carenza di Dpi. Immagino che non vi sentiate tutelati adeguatamente...
«Cerchiamo di tutelarci nel migliore dei modi. Una volta un collega mi ha creato un lenzuolo monouso oppure ci sono posti in cui qualcuno ha utilizzato sacchi della spazzatura come camici. Ogni giorno abbiamo a che fare con possibili pazienti positivi. Nei reparti di rianimazione, a differenza nostra, li hanno i materiali e si approcciano ai pazienti comunque sapendo che sono positivi. Purtroppo scarseggiano i materiali. Dobbiamo riciclarci la mascherina, il camice, io stessa mi sono procurati gli occhiali. E non è nemmeno colpa della coordinatrice che fa di tutto. Soprattutto dalle ultime mascherine che ci hanno mandato passa l’aria. Di Ffp3 (che sono le uniche mascherine che possono realmente proteggerci) ne ho soltanto una».
Tu hai lavorato all’estero, immagino che lì sia differente lavorare rispetto al contesto salernitano?
«Ho lavorato due anni a Cambridge, lì hanno tutti i mezzi per garantire un’assistenza adeguata ma la mentalità è diversa. Ho parlato con colleghi che lavorano lì, per certi versi hanno ancora più paura di noi. Infatti, probabilmente lì le persone non hanno ancora acquisito la consapevolezza della gravità della situazione. I nostri coordinatori e primari cercano di garantirci qualcosa, lì no. In Inghilterra quando un paziente ha la febbre si isola esclusivamente usando la mascherina chirurgica ed un paio di guanti, e si sta continuando a fare così. Uno dei motivi per cui sono rientrata da lì è che la sanità di quel paese per certi versi non mi ha colpito. I medici pur avendo gli stessi mezzi non hanno la stessa , ma tendono a curare il sintomo piuttosto che la malattia. Se vedono che la situazione è critica non hanno esitazione a passare al paziente successivo. Ho lavorato in vari reparti, usano tantissimi antidolorifici e pochi strumenti per risolvere la malattia. Al Sud abbiamo sicuramente medici più competenti rispetto a loro, ma forse meno mezzi». Si sente spesso che al Nord i medici sono costretti a scegliere chi salvare e chi poter curare. Credi che al Sud o comunque a Salerno si possa raggiungere un collasso? «Io sono convinta di questa cosa, per ora abbiamo avuto i mezzi. Ma non appena questa curva crescerà in maniera esponenziale la situazione diventerà come al Nord se non peggio, siccome la nostra organizzazione è pessima. In assenza di un’organizzazione che non smista i pazienti in modo adeguato, si rischia di giungere a questa situazione».
Quanti sono i malati ricoverati nel centro Covid al Ruggi?
«Non c’è un numero esatto, so che la terapia intensiva e le malattie infettive sono pieni. Due settimane fa erano sette ma ovviamente sono cresciuti».
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