di Erika Noschese - L'Ora di Cronache
Il medico missionario: così potrebbe essere ribattezzato Vincenzo Mallamaci, noto cardiologo salernitano che – da più di 30 anni – si divide tra l’Italia e l’Africa. Dopo la laurea ha scelto di seguire gli insegnamenti delle suore missionarie che ha conosciuto durante gli anni universitari e, da allora, con la sua associazione “E ti porto in Africa” non ha mai smesso di correre in quella terra così lontana dove ha realizzato, fino ad ora, ambulatori medici, orfanotrofi, pozzi e coltivazioni di cacao.
Come nasce la sua attività di missionario?
«La mia passione nasce all’epoca dell’università quando da giovane studente frequentavo le scuole missionarie di Madre Teresa di Calcutta, di Napoli. Mi sono laureato alla prima facoltà quindi le suore di Madre Teresa sono in piazza San Gaetano, poco distante dal policlinico. Frequentando loro ho avuto questo desiderio, una volta diventato medico, di fare un’esperienza. Così, appena laureato – più di 30 anni fa – ho fatto il mio primo viaggio missionario in Africa, esattamente in Costa d’Avorio, dove mi sono trovato a confronto con delle realtà che io non pensavo potessero esistere e che certamente non avevo appreso nei miei studi universitari. Sconvolto da quel viaggio torno in Italia e comincio a pensare a loro perché avevo lasciato bambini ai quali avevo dato farmaci divisi col bisturi perché non avevo farmaci a sufficienza; avevo lasciato tanta gente che aveva bisogno ancora di cure e di me. Inizia così questa gioia di condividere con gli altri la necessità di donare quello che gratuitamente avevamo avuto. Nascono così i primi viaggi missionari, tre all’anno, nel centro Africa quindi Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Benin, con distribuzione di farmaci, visite gratuite nei villaggi più poveri. Successivamente, iniziano le prime opere, le prime attività d’emergenza, con la realizzazione di centri medici: abbiamo realizzato oltre 20 centri medici con sale parto; un grande orfanotrofio in Costa d’Avorio per 350 bambini, un altro è in costruzione; oltre 500 pozzi per l’acqua, distribuiti nei villaggi più lontani dai centri abitati del centro Africa, oltre ai gemellaggi con le scuole perché in Africa i bambini poveri non vanno a scuola e non possono studiare. Abbiamo pensato di donare cultura a questi bambini, rendendoli uomini liberi proprio in virtù di questa cultura che noi regalavamo loro e che i potenti del posto non volevano. Siamo andati avanti nel tempo e da una piccola associazione, si può dire familiare, siamo presenti non solo in Italia ma anche all’estero, con delle sedi. La nostra è un’associazione di volontariato puro, ciò significa che noi andiamo in Africa pagandoci l’aereo con i soldi del nostro lavoro, non viviamo negli hotel ma nei villaggi. Io stesso ho preso la malaria tre volte ma questo ci fortifica, ci fa capire l’essenza vera dell’essere uomo, ci fa capire che – al di là di tutto quello che noi possiamo possedere – quello che ci identifica è quel poco di amore che noi riusciamo a dare agli altri».
A quando risale il suo ultimo viaggio?
«Il mio ultimo viaggio è stato lo scorso anno in Marocco per aiutare una scuola di bambini down. Poi, due anni fa sono stato in Africa. In questo periodo sono comunque andate altre persone, altri volontari quindi il contatto è diretto. A breve partirò per il Benin».
Quando partirà?
«Lo stiamo coordinando con monsignor Cecchetti con il quale andremo perché ci recheremo in un ospedale del Benin, dedicato a Padre Pio, e dove dovremo fare un intervento delicato su alcune situazioni. Quindi, aspetto il nulla osta da parte sua perché dovrà venire anche lui con noi e poi partiremo».
Dottore, viaggiando tra queste terre così povere quale esperienza, in particolare, l’ha colpita?
«Questi viaggi mi lasciano sempre l’emozione, la commozione. Io non mi abituerò mai alla sofferenza di questa gente che, alla fine, potrebbe stare bene perché il problema di fondo è questo: la Costa d’Avorio è il primo paese al mondo per la produzione di cacao e non c’è una sola fabbrica di cacao perché va tutto in Francia. I francesi, poi, producono cioccolata e nutella che quei bambini africani non conoscono. In Congo visito donna con le mani piagate dalla raccolta di pietre e non sanno che si tratta di diamanti che vanno in Olanda e arricchiscono le lobby del nostro territorio mentre quella gente continua a morire. Ho visto bambini armati e purtroppo anche l’Italia produce armi che manda in Africa. Solo pochi giorni fa abbiamo celebrato l’anniversario della sottoscrizione dei Diritti dei bambini, firmata dall’Onu 30 anni fa e può rendersi conto di quanto dolore rimane in me ogni volte che rientro in Italia e penso a ciò che ho lasciato lì. Tutto questo mi spinge ad andare avanti, sono consapevole che non bisogna aspettare i potenti per cambiare il mondo ma dobbiamo partire da noi. Noi viviamo di volontariato puro, le opere realizzate non sono fondi pubblici né di privati bensì raccolte che i volontari disseminati in tutta Italia ottengono con cene di beneficenza, serate d’asta, teatro, vendita di piantine. Abbiamo un diretto contatto con i nostri missionari e non ci sono altre vie: consideri che noi, nella stessa zona dove organizzazioni importanti realizzano pozzi a 15mila euro, noi lo facciamo con 5mila euro e si renderà conto del perché riusciamo a realizzare le opere».
Come riesce a gestire la sua professione medica e la sua attività di missionario?
«Io il mio tempo libero lo dedico a queste missioni che non sono solo in Africa ma anche in Italia: proprio nel giorno dell’Epifania sono stato con il corpo internazionale dell’Humanitas, a visitare tutti i poveri e senza tetto di Caserta. Abbiamo voluto dare questo segno dell’Epifania nella vera essenza della parola, questa manifestazione di questo Dio che si fa povero e ci spinge ad andare verso gli altri. Ho invitato i genitori a portare i bambini e ho detto loro che il miglior regalo che potevano fare ai loro figli non era il giocattolo, nel giorno della Befana, ma fargli vedere la condivisione, capire e formarsi per diventare uomini migliori per una società migliore».
E’ un periodo storico particolare, a tratti sembra quasi un ritorno al fascismo e continuiamo a sentire slogan quali “chiudiamo i porti” o “aiutiamoli a casa loro”. Lei cosa ne pensa?
«Io posso dire quello che da 5 anni stiamo realizzando, ovvero coltivazioni di cacao, zenzero, allevamenti di polli proprio in queste zone dell’Africa, consentendo alle famiglie povere di lavorare, guadagnare sul posto e non mettersi sui barconi. Alla fine, forse, non ci vuole niente ad aiutare queste persone ed evitare che possano mettersi su una barca ma gli interessi, anche di alcune persone in Italia, sono forti e usano questa gente per loschi traffici ma contemporaneamente si parla tanto e con tutti i fondi raccolti non si riesce a fare ciò che noi con una piccola associazione riusciamo a fare».
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